Notes on a Scandal, di Zoë Heller

by

di Federica Sgaggio

Barbara Covett è un’insegnante di una certa età che nella frizione contro il tempo ha smaltito le speranze e bruciato gli ideali; è sola, cinica, perfida, tagliente, ambigua, miserabile, intuitiva, disperata, moralista, titanica e minuscola. E non smette di fare attrito con la vita.

Sheba Hart è una collega che, appena arrivata ad insegnare ceramica alla stessa scuola dopo anni di vita solo domestica, finisce coinvolta – vittima, carnefice, o entrambe? – in una relazione sessuale con un allievo minorenne, seduttore ingenuo e scaltro, specchio perfetto per l’anima plastica e sfuggente di una quarantenne di poche pretese e scarse attrattive, moglie di un uomo più anziano appeso al simulacro di un impossibile sogno di successo, e madre di due figli: l’una un’adolescente in fuga ribelle; l’altro un bambino Down che chissà quanto spiegherebbe di questa storia se solo a raccontarla fosse Sheba.

Ma il punto è qui: che la storia di Notes on a Scandal non la racconta Sheba, ma Barbara; e questa voce altrui è un espediente narrativo che in se stesso si trasforma in trama.

Perché ciò che apparentemente si racconta – la storia di una passione impari che si gioca sul terreno di mezzo fra l’innocenza e lo squallore – non è in realtà l’argomento del libro, che invece tratta di invidia, di femminilità, di ambiguità, maternità, paura di morire, gioventù perduta, solitudine, ipocrisie; parla di uomini sciocchi e donne petulanti; di stupide meschinerie di potere; di poveri e ricchi; di padri, madri, figli; di ferocia e compassione. E, infine, di asservimento e di dipendenza.

Barbara scrive un diario di ciò che è stata la storia di Sheba con Steven Connolly alla vigilia del processo, in un momento in cui a Sheba son venuti meno il marito, i figli, il lavoro (ovviamente è stata licenziata), la casa, il denaro.
Questo (pagine 45 e 46 dell’edizione in lingua) è sostanzialmente il primo affondo che nel libro Barbara dedica all’amica e alla sua storia con Steven:

Era attratta da Connelly, e per dare una spiegazione a quest’attrazione si era autoconvinta che il ragazzo fosse una specie di genio. Questa ricostruzione dei fatti è piuttosto ragionevole, ma penso che non possa esaurire tutto il senso di questa storia. Per comprendere fino in fondo la reazione di Sheba a Connolly» (che le si presentava nello studio mostrandosi interessato all’arte, non si sa quanto strategicamente, ndr), «occorrerebbe anche tenere in considerazione la conoscenza molto limitata che lei aveva della gente della classe sociale a cui il ragazzo appartiene, e – conseguentemente – le basse aspettative che su quella gente coltivava. Fino a quando non ha incontrato Connolly, Sheba non aveva mai avuto alcun contatto ravvicinato con qualcuno che a buon diritto si potesse ritenere membro del proletariato britannico.

Tutto ciò che Sheba sa della working class l’ha appreso dalle soap opera e dalle donne di servizio, dice Barbara.

Naturalmente, Sheba lo negherebbe. Proprio come un gran numero di membri dell’haute bougeoisie (in francese nel testo originale, ndr), Sheba è profondamente legata alla sua mitologia di abitante scafata della giungla urbana. (…) Questa cosa dà smalto alla sua immagine. (…) La povera vecchia Sheba considerava Connolly con lo stesso compiaciuto stupore con cui voi o io guarderemmo una scimmia mentre, a passeggio nella foresta pluviale, ordina un gin e tonic.

Barbara si arrampica in una spietata osservazione sociologica dell’amica, ma nessuno potrebbe darle torto sui singoli punti analitici. Non solo perché nessun lettore conosce così bene Sheba da poterla difendere, ma anche perché la ferocia della descrizione di Barbara è maledettamente persuasiva.

E questo è il tratto generale del racconto: si comprende che la narratrice è estremamente ostile, come ostile sa essere chi con crudele corrività potremmo definire una vecchia zitella; ma in quella spietatezza riconosciamo i germi di una verità che non importa se sia solo nevroticamente autolesionista (perché ci fa male, non salva niente, e ci mette da soli e senz’armi di fronte al plotone d’esecuzione della vita quotidiana) o effettivamente lucida e per così dire storica.

Sicché, leggendo un romanzo ricchissimo perfino sul piano della lingua e del giro di frase, tutto quel che possiamo dire è che ci fa rabbia Barbara e ci fa rabbia Sheba ma le capiamo entrambe; che ci fanno rabbia tutti gli altri personaggi, ma li capiamo tutti. Che vorremmo schiaffeggiarli tutti, ma poi anche prenderci un quarto d’ora per sentirci in colpa e consolarli un po’, per la loro irriducibile meschina umanità che ce li fa fratelli nonostante tutto.
E anche Barbara cede alla generosità.

(Sheba) trascorreva l’intera giornata facendo i conti con la materialità corporale di ragazzini suoi allievi: inspirando l’afrore delle loro scoregge, guardando con compatimento la loro acne. Alcuni erano ben poca cosa, e altri erano invece attraenti. Quale genere speciale di santo ci sarebbe voluto per non notare la differenza? Ma qualunque piacere ella prendesse dalla fisicità di Steven, quel piacere era ambiguo né più né meno di quello che ella stessa aveva tratto dai corpicini cicciottelli e vellutati dei propri figli. Un piacere dei sensi, certo; ma tutt’altro che un piacere sensuale.

È amica, è nemica, è madre, figlia, carnefice, parassita; guarda la vita della peccatrice in controluce per appropriarsene, per renderla sua. E in quest’opera di ingestione della vita di Sheba mette al mondo la perversa fusione che conduce a volte le madri a considerare i figli né più né meno che una parte del proprio corpo. Un braccio, una gamba, un pezzo di stomaco. E, a quel punto, a fusione compiuta, il male che si fa all’organismo di cui ci si è appropriati è l’uguale identico male che si fa a se stessi. Si stritola l’altro per stritolare se stessi.

Non che questo ci assolva, e Barbara lo sa bene (tant’è che non le sfugge il suo ruolo di autentica traditrice dell’amica); ma non c’è possibilità che lei riesca ad astenersi da quel fiero pasto; da quell’ingurgitare l’amica rendendola un immissario del suo fiume alimentato da ormai pochissimi affluenti.

Era irritante quando Sheba parlava in questo modo, come se fosse la vittima impotente di un destino avverso, invece che l’architetto principale della propria sofferenza. È un pochino tardi, adesso, perché lei possa cominciare a mettere in scena la recita della madre addolorata. Avrebbe dovuto pensare al benessere del suo piccolo Ben la prima volta che s’era messa a fare gli occhi dolci a Connolly.

Quello del «ti ho mangiato e ora sei mia» è un gioco scivoloso e cruento, come si vede.
Una sera, Sheba accampa una scusa col marito per vedersi con Steven; la sua amica Caitlin arrivava dal Devon per la notte. Sheba vuole incontrare Connolly, dice Barbara, non per farci l’amore, ma solo per dirgli che quella storiaccia non deve proseguire.

Ai lettori il compito di giudicare ciascuno per sé la credibilità di questa pretesa. A me è sempre sembrata un po’ sospetta. (…) Sono fortemente portata a credere che nessuna donna, nemmeno una con l’enorme capacità di autoinganno di Sheba, potesse prepararsi a un simile incontro realmente convinta che il suo unico obiettivo fosse l’esplicitazione di un rifiuto.

Dunque, Barbara scrive per essere letta. Parla ai lettori.
Noi non sapremo mai che uso intenda fare di questo diario. Zoe Heller non ce lo dirà nemmeno all’ultima pagina. Però il fatto che lei scriva pensando di essere letta aggiunge un ulteriore elemento di ambiguità ai sentimenti dei quali si racconta.

E tra i segnali ambigui c’è anche la facilità con la quale Barbara riesce a sostituirsi a Sheba come moglie di Richard, come la donna che Richard tocca. Nella fantasia, certo; solo nella fantasia. Perché nella realtà della narrazione, Richard detesta lei almeno quanto lei detesta lui. Invidia. Gelosia. O forse Richard è veramente detestabile, vanesio e meschino.
Tutto si confonde, si mischia.

Quando leggiamo che Sheba non ha mai fornito a Barbara «molti dettagli tecnici sulla sua relazione intima con Connolly», quello di cui apprendiamo è in realtà il misurato ma belluino rammarico di una vecchia guardona moralista. Che però ha il coraggio di dire che non sottoscriverebbe mai la pretesa innocenza arbitrariamente presupposta dalla legge per chiunque abbia meno di sedici anni.

Intendo dire che essi (i ragazzini, ndr) possiedono una sorta di istinto, di talento naturale, per il gioco del potere sessuale. (…) Non penso neppure per un solo istante che Connolly abbia patito ferite durature a causa della sua esperienza con una donna più anziana. Al contrario, sono convinta che egli abbia vissuto un’avventura piuttosto eccitante.

E questo cos’è? Vedute larghe? Difesa dell’amica? Generosità? Acrimonia verso il genere umano? Disprezzo verso i maschi?

Ed ecco un altro argomento contro l’innocenza dei sedicenni.
Una volta, dopo aver fatto l’amore, Connolly dice a Sheba che lei è la sua prima «donna anziana», e lui il suo primo «ragazzo lecca-lecca». Lei si adombra. E allora lui l’azzanna, chissà se consapevolmente o no:

«A proposito della tua età e cose così…», disse lui. Si fermò, apparentemente soppesando se era il caso di spingersi a dire quel che aveva in mente. Fece un’altra risatina. «Sei spaventata perché la tua verginità è andata persa».
(…)
«Che commento disgustoso», disse lei.

I sentimenti ambigui di Barbara sono numerosi, devastanti ma soprattutto perfettamente credibili, perché sono ben argomentati su entrambi i lati, lungo entrambe le direzioni. È la descrizione della complessità, quella che fa Zoe Heller; non la definizione a ritaglio di un personaggio oleografico di zitella invidiosa.

«Ai miei tempi ho visto un numero di ragazze vogliose certamente sufficiente a rendermi familiare il tipo di manipolazione sessuale di cui le giovani femmine sono capaci».

Anche qui: invidia? Rimpianto? Tentativo di essere equanime? Rivelazione dell’impossibilità di guardare a Sheba come a una donna altra da sé? O magari il foro moralistico d’ingresso del proiettile della dipendenza perpetua alla quale costringerà l’amica?
Notes on a Scandal potrebbe sembrare la storia della seduzione fra un’adulta e un ragazzino.
O la storia di un’amicizia, un affresco di costume, o il diario di una testimone, o la storia dei ridicoli e patetici rapporti interni di una scuola, o una disamina dei rapporti fra i sessi, o la storia di una donna di una certa età, o quella di una pubblica peccatrice, o una denuncia della crudeltà sociale.

Ma non è niente di questo, isolatamente preso. Eppure è tutto questo insieme, e si legge così come si sfoglia una cipolla: sotto c’è sempre qualcos’altro, e quando della cipolla s’è raggiunta la parte commestibile non resta che agire con lame taglienti per frantumare, spezzettare, ridurre a brandelli. Ma con le lacrime agli occhi; un po’ per la rabbia, un po’ per il dolore.

Quella volta che Jennifer (una vecchia amica di Barbara, ormai scomparsa dalla sua vita, ndr) e io andammo insieme a Parigi assistemmo alla scena in cui un addetto della compagnia aerea a Heathrow chiese a due tipi molto grassi in coda al check-in dove fossero diretti. In realtà i grassoni non erano una coppia, e l’allusione all’ipotesi che lo fossero li gettò nel panico. Allontanandosi precipitosamente l’uno dall’altro, i due gridarono all’unisono: «Noi non viaggiamo insieme!». Compresi il loro orrore. Perfino Jennifer e io, a volte, finivamo vittime della consapevolezza di dare l’impressione di essere una coppia. Da sole, ciascuna di noi godeva della rassicurante insignificanza – o piuttosto, della rassicurante invisibilità – di cui gode agli occhi del mondo ogni ordinaria ultraquarantenne. Insieme, invece, sospettavo costantemente che rasentassimo il comico: due zitellacce in libera uscita. Il siparietto di una commedia sullo zitellaggio in scena in un music-hall.

Non tollera l’idea di avere torto, ma nemmeno l’idea di essere quella che è. La prima vittima di Barbara è Barbara.
Come si può, da lettori, desiderare di far del male a una donna che se ne fa così tanto già da sola? Come si può non prender parte solidale alla narrazione di una voce tanto impietosa verso le proprie debolezze?

Ma allo stesso tempo: come può, un lettore, evitare di pensare che nella greve e grossolana allusione all’ipotesi di una sordida – perché illuminata da un lampo ferocemente moralista – relazione omosessuale fra Barbara e Jennifer si nasconda il desiderio di un legame dello stesso tipo con una Sheba a cui l’enormità della sconfitta ha sottratto alla debolezza di partenza ogni ulteriore forza necessaria ad opporsi?

Barbara non fa che cercare la considerazione di Sheba come un innamorato. La prima volta che sembra ottenerla racconta di sentirsi in una felicità senza chiaroscuri, e per essere meno equivoca ci mette anche un punto esclamativo.

Quanto alla famiglia di Sheba, be’, essa non è un ostacolo: non solo perché a spazzarla via provvederà la tragedia incombente, ma anche perché agli occhi di Barbara Richard e i ragazzi sono un’ipocrita appendice borghese che si può recidere con un po’ di onesto cinismo e di saggezza spietata.

Per esempio: Polly, la primogenita, a scuola è una bulla che estorce denaro ai compagni. La scuola la espelle, ma il counsellor dell’istituto dirà ai genitori che sotto la superficie ruvida, la ragazzina è piena di paure e di dubbi su se stessa.
E come commenta Barbara? Come se Polly fosse irrecuperabile, finita. Come se i fatti avessero dimostrato che Sheba doveva, per il proprio bene, ignorare Polly. Così come aveva forse fatto la madre di Barbara, che aveva costruito per la figlia un’etica del risparmio dei sentimenti.

Quando Sheba mi raccontò le cose, mi misi a ridere rumorosamente. Ha sempre un suo fascino sentire cuori sanguinanti fornire giustificazioni autoindulgenti a comportamenti delinquenziali.

Barbara, d’altra parte, è l’amica asfissiante che detesta l’ipocrisia; è prototipo di quel genere di amici che ti dicono cose tremende vantandosi, dopo averti indotto alle lacrime, di ciò che credono di poter chiamare «sincerità»; è amica del tipo di quelle che si sentono appagate dalla loro pretesa capacità di guardarti dentro e di vederti attraverso, e incarnano l’archetipo dell’istanza giudicante degna della più sadica delle educatrici tedesche che popolano il nostro immaginario.

Quanto più salutare è avere un amico che non ha paura di tenerti testa, di dire pane al pane e vino al vino! Non è mai piacevole essere smascherati. Ci son state volte in cui, non mi vergogno a dirlo, l’avrei presa a spintoni.

Barbara è crudele come pochi. E la sua volgarità sacrilega e iconoclasta, dissimulata per oltre 150 pagine, divampa all’improvviso con la violenza di uno stupro quando racconta che la sorella Marjorie

era quasi bagnata dall’eccitazione

al pensiero che Sheba sarebbe andata con lei e il marito alla funzione religiosa del venerdì santo.

Barbara è sola perché non ha figli, ma anche perché la sua pelle non è toccata da nessuna mano di uomo:

(C’è gente che) non ha idea di cosa sia essere a tal punto esiliata dal mondo di chi viene toccato che il casuale strofinio della mano di un conducente di bus sulla tua spalla fa partire un’improvvisa scossa di lascivia che ti arriva all’inguine.

La scena più formidabile del libro – e non solo il punto germinale del conflitto che, disperso fra decine di altri conflitti, fa da base cruciale della narrazione – è quella in cui Barbara tradisce e diventa quel Giuda di cui abbiamo sempre sospettato.
È uno spettacolare affresco multicolore e sfaccettato della facilità con cui i rapporti fra maschi e femmine possono scivolare dal piano inclinato della complice voracità sensuale a quello del reciproco feroce divorarsi; ed è uno splendido esempio di quanto poco occorra nella vita per percorrere la strada che ci separa l’ordinario dal precipizio. Per dirla con Barbara:

Mi sembra che un’enorme quantità di comportamenti viziosi – ma anche virtuosi, se è per questo – non sia che il risultato casuale delle circostanze. È completamente possibile che se le mie sigarette fossero finite prima, o che se Bangs non fosse stato così provocatorio e abietto, Sheba non sarebbe stata per niente tradita.

Bangs è il collega che una sera, in un periodo in cui lei e Sheba non si frequentano, invita Barbara a cena. Non che lei si faccia illusioni sul possibile interesse sessuale di un uomo di 15 anni più giovane, ma un po’ di brivido quell’invito glielo muove.

Ed ecco la scena meravigliosa. I due sono dopo cena nello squallido appartamento del single Bangs:

«Il fatto è, vedi…», disse Bangs, «che mi sono preso una cotta per qualcuno. Qualcuno a scuola». (…)
Io capii istantaneamente. Come avevo potuto ignorarlo fino a quel momento? Non tentai di fermarlo, comunque. C’era in me una specie di furia che voleva che egli arrivasse al pieno smascheramento. «Ah», dissi.
«Riesci a indovinare di chi si tratta?», domandò lui sorridendo in modo civettuolo. (…)
«Ummm…», dissi guardando il soffitto e sbattendo le palpebre come fingendo di riflettere. «Si tratta di me?».
La sua faccia si raggelò di perplessità.
«Prova a non sembrare così schifato, Brian», dissi.
Rise. «Ma no. Sai che non intendevo questo. In realtà, Barbara, penso che tu sia una signora molto piacente. Devi essere stata molto graziosa quand’eri più giovane».
(…)
«Non metterti a ridere, ma la persona per cui ho una cotta è Sheba». Si fermò, in attesa di una mia reazione. Non ne ebbe. «Onestamente Barbara, sono completamente fuori di testa per lei», proseguì dopo un istante. «So che è sposata e tutto, ma non possono tenerla fuori da…».
«Brian», lo interruppi. «Mi stai offrendo quest’informazione come se fosse una notizia invece che una semplice dichiarazione di ciò che da qualche mese a questa parte è perfettamente chiaro all’intero staff della scuola. Non c’è nessuno dei tuoi colleghi a cui sia sfuggito ciò che tu chiami la tua “cotta”».
«Che cosa?», domandò Bangs. (…)
«Sì», dissi. «Il fatto è, Brian, che ti sei reso ridicolo da solo. Tutti noi ci siamo fatti delle belle risate per il tuo comportamento. È singolare che tu non te ne sia accorto».
«Va bene», disse Bangs con voce strozzata. «Adesso basta».
«Non ti arrabbiare», dissi. «Sono solo la messaggera…».
«Va bene! Ma adesso taci!», gridò. «Chiudi la bocca, eh?». Si mosse verso di me. Potevo vedere le goccioline di sudore sul suo naso. «A Sheba piaccio», disse con calma. «Io lo so che le piaccio».
(…)
«Oh, Brian», sussurrai, «non dirmi che ti sei trastullato con la speranza di essere ricambiato! È una cosa così dolce, Brian…».
(…) «Zitta!», esclamò. «Lo so che è sposata. Pensavo…».
«Be’, non è solo che è sposata. Voglio dire… La verità è che tu, Brian, non sei il suo tipo».
«Oh, su questo ti sbagli», replicò scuotendo la testa con convizione. «Sheba non è una snob. Dà da parlare a tutti, Sheba».
«Non mi riferivo a questioni di classe sociale, Brian. Non è che tu non sia abbastanza posh…».
«E cosa, allora? Cosa intendi?».
«È solo… Oh, niente», dissi soffocando una risatina.
«Cosa?».
«Be’. È più che altro una faccenda d’età. A Sheba piacciono gli uomini più giovani, sai. Molto più giovani». Mi fermai un momento. «Voglio dire: tu sei a conoscenza della sua relazione insolitamente ravvicinata con uno dei ragazzi dell’Undicesimo anno?».
La faccia di Bangs sembrò gonfiarsi per un istante, prima di accartocciarsi su se stessa. «No», disse in un soffio.

Notes on a Scandal, Viking, 2003 e poi Penguin Books; noto in Italia come La donna dello scandalo, Bompiani 2005, traduzione di Andrea Silvestri. Dal libro – il secondo della narratrice inglese Zoë Heller, del quale ricordo anche il più recente e bellissimo The Believers (diffuso in Italia l’anno scorso come Gli illusi, sempre per Bompiani, e sempre tradotto da Andrea Silvestri) – venne tratto il film Diario di uno scandalo – scheda e trailer: qui – con Judi Dentch e Cate Blanchett, uscito da noi nel 2007.

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