Antonio Moresco, Fiaba d’amore

agosto 19, 2014 by

fiaba d'amore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di cletus

 

Già detto che considero Moresco il più grande scrittore vivente italiano.
Il gusto di non essere smentito ad ogni sua nuova lettura.
Stavolta, campeggiava anche questo testo da un pezzo sul tavolino in salone. Coraggio, si parte. Mangiato, divorato in un pomeriggio e una mattina. Stavolta, se possibile, si è superato.
Moresco deve aver avuta una vocazione nascosta alla scultura (chè quella alla fotografia è già assodata: splendide ed asciutte le sue descrizioni delle città, dei paesaggi, ovunque si posi il suo occhio acuto e pieno di poesia).
Come uno scultore riduce all’osso il concetto dell’amore. Lo scarnifica, mettendone a nudo le delicate trame, i non detti, tutta l’informe materia che da secoli da da fare a chiunque si voglia cimentare a discuterne.
Moresco è oltre tutto questo. E lo fa tenendoti incollato alla pagina, a bocca aperta davanti all’incedere della storia-pretesto per sviluppare il suo assioma. L’amore è….Si trattiene, da vero maestro, dal fornire alcun agio al lettore. Il testo è questo. Il prezioso ricamo di frasi, spezzoni di dialoghi (del tutto assenti i virgolettati, quasi a sottolinearne la non rilevanza, davanti agli atti, ai comportamenti degli uomini). Insomma una fiaba, bellissima, nella quale chi provenisse dagli ultimi suoi romanzi non troverà per nulla strana l’incursione (stavolta con ritorno) nel regno dei morti.
E siamo nulla, nulla difronte ad una cosa destinata a finire come la vita, intesa come mera esperienza biologica. L’amore allora come antidoto, come qualcosa capace di andare, appunto, oltre.
Grandissima prosa, voglio bene a quest’uomo.

http://www.librimondadori.it/libri/fiaba-d-amore-antonio-moresco

Letture amiche (con sorpresa): Chiedi scusa alla guerra, di Alessandro Morbidelli

aprile 9, 2014 by

csagPer la serie letture amiche oggi parlo di un libro speciale, che mi sento onorata di aver letto così precocemente. In che senso precocemente, viene da chiedersi? Lo spiegherò in seguito. Intanto vanno detti titolo e autore. Si tratta di “Chiedi scusa alla guerra”, di Alessandro Morbidelli.
Il romanzo è il seguito del fortunato noir del 2010 “Ogni cosa al posto giusto” pubblicato da Robin Edizioni, ma in qualche modo può essere letto anche come libro a sé. I riferimenti alla storia precedente si spiegano in parte nel dipanarsi della trama; io però consiglierei la lettura di entrambi, nell’ordine di scrittura. Leggi il seguito di questo post »

Intanto anche dicembre è passato, di Fulvio Abbate.

marzo 5, 2014 by

la copertina del libro

Lo ammetto, sono tentato dall’idea di non leggere più romanzi di persone che in qualche modo conosco. Un vezzo? Poco più di un capriccio. Un mix fra invidia, eccesso di trasporto, condivisione di intenti. E succede puntualmente, con Massimiliano Parente, con Fabio Viola, con Franz Krauspenaar, con Gaja Cenciarelli e ultimo ma non ultimo, Fulvio Abbate.

Conosco Fulvio da qualche tempo. Ne seguo estasiato la verve che sprigiona nei suoi post corrivi, graffianti, controcorrente, ilari. Ne resto influenzato. E’ stato cosi anche per questa sua ultima opera. Uscito alla fine dell’anno scorso ha già ottenuto decine e decine di recensioni. Tutte, ma proprio tutte, accuratamente evitate. Il libro l’ho preso la sera del suo spettacolo all’Argentina, scorso novembre, debitamente firmato (altro vezzo duro a morire…) e rimasto intonso, per settimane, sul tavolino del salone. E’ che ho un pessimo rapporto con la lettura ultimamente. Quasi che la tirannia del tempo riempito spesso da cose talmente inutili come il provvedere, con sempre maggiori difficoltà, al proprio sostentamento non desse altro, privandomi anche della residua valenza d’evasione che può costituire la lettura.

Leggi il seguito di questo post »

Letture amiche: “L’uomo che volle farsi strega”, Francesca Garello

gennaio 23, 2014 by

luomo-che-volle-farsi-stregaPer la serie Letture amiche, oggi voglio parlare di un insolito libro di racconti: L’uomo che volle farsi strega, di Francesca Garello, Homo Scrivens editore, pubblicato nel 2013. Che sia insolito, credo che basti il titolo a supportarlo: qui ci troviamo di fronte a racconti molto strani… Insomma, si sa che è difficile parlare di una raccolta di racconti, forse mi spiego meglio chiacchierando dei singoli brevi testi che essa racchiude e che, lo ammetto, mi hanno divertita da matti. Leggi il seguito di questo post »

Letture amiche: “L’acqua tace”, Pelagio D’Afro

gennaio 18, 2014 by

l'acqua taceMi fa piacere riprendere una vecchia abitudine persa solo per mancanza di tempo, non per mancanza di volontà o di materiale. L’abitudine, mantenuta per anni, di mettere nero su bianco le mie impressioni di lettura. Alcuni libri, infatti, non lasciano niente dopo la parola fine. Altri invece fanno pensare. Alcuni divertono, altri commuovono. Talvolta, pescati nell’immane offerta di questi anni, pur essendo stati graditi si finisce con lo smarrirne la memoria, ed è un peccato. Me ne sono resa conto quando un’amica mi ha chiesto di parlarle di un paio di romanzi che, come io stessa le avevo detto, mi erano piaciuti molto. Sì, però, a raccontarli… quasi non ricordavo più niente, a parte il fatto che mi erano piaciuti. Un po’ poco, certo. Ecco perché, tempo permettendo, vorrei riprendere questa sana abitudine. Una volta che hai scritto, la memoria resta (scripta manent, dicevano gli antichi) e se qualcuno domani mi chiedesse un parere su qualcosa che ho letto potrei rimandarlo al… link apposito. Leggi il seguito di questo post »

Il ricordo di Daniel di Marco Candida

novembre 6, 2013 by

recensione di Guido Tedoldi

Ho letto il romanzo di Marco Candida «Il ricordo di Daniel» (2013, Edizioni Anordest, pp. 335). E mi pare che abbia in sé degli elementi notevoli. La sua scrittura si sta evolvendo, così come la sua capacità di creare trame: in entrambi questi ambiti, mi sembra di aver notato differenze a volte notevoli rispetto ai suoi romanzi precedenti, soprattutto il primo («La mania per l’alfabeto», 2007, Sironi, pp. 299, € 12,00). La sua attenzione rimane sempre piena di dettagli, e usa molto quei dettagli per sostenere la scrittura in certi momenti di minor ispirazione – ma con il tempo ha acquisito fluidità, ha limato le asperità provocate dalle ripetizioni di parole e soggetti. E il numero di eventi che accadono nella narrazione è aumentato, per numero, implicazioni e relazioni interne. Mi sembra un’applicazione della regola anglosassone dello «show, don’t tell», che in italiano potrebbe tradursi in «mostra, non girarci attorno». Anche perché è una regola che consente di dire molte cose, a vari livelli di profondità, evitando tante pastoie retoriche. D’altra parte gli anglosassoni applicano quella loro regola alle fiction televisive, oltre che a quelle letterarie, e sono attualmente dominanti nella cultura mondiale grazie proprio alle produzioni televisive e cinematografiche dove mostrano molto, senza star lì tanto a girarci attorno.

Leggi il seguito di questo post »

La lucina, di Antonio Moresco

settembre 7, 2013 by

di cletus

Ho finito di leggere La lucina, di Antonio Moresco.

Sono rimasto abbagliato dal nitore della sua scrittura. Che è una scrittura scarna, essenziale, priva di autocompiacimenti. Dura.

Moresco riesce a descrivere il nulla come fosse Times Square all’ora di punta. Quasi una filosofia orientale. Quelle robe dove giocano categorie come il tutto e il niente, ma dove poi anche il niente, se lo guardi bene, è il tutto. Diventa il tutto.

Cosi in un’atmosfera rarefatta, in un non meglio precisato posto di montagna, Moresco ci racconta di un uomo che vive solitario appena fuori dal paese. Questo uomo vede continuamente, in mezzo al buio totale, dall’altro lato della valle, sul crinale di un’altra montagna una lucina. Va in fissa, come si dice a Roma.

La ricerca della fonte di questa luce è il tema del testo. Nessuno spoiler. Chi può lo legga. Apprezzando le splendide descrizioni, al confine con l’anatomia pura, di cui è farcito. Ecco, la cosa che mi ha colpito di più è questa capacità dell’autore di saper “leggere” il nulla. Scoprendovi la vita dentro, le regole mute che la governano, vuoi dentro una pianta, o dentro un volatile. Questo sguardo acuto e disilluso, che proprio lavorando sull’assenza riesce a colmarla, a leggervi in filigrana quell’impeto a vivere incessante, e a volte ferocemente indifferente, violento.

Un gran testo, che può turbare. A dispetto del diminutivo del titolo, che può fuorviare, e che anzi credo sia stato proprio scelto per contrasto. Quasi un inganno bonario per il lettore che si appresta ad aprirlo.

Sciolto in capitoli brevi, si legge via via con la percezione della sospensione dell’incredulità. Mentre lo leggi, vai avanti dicendoti ok, ho capito, ti conosco, l’hai già fatto ne Gli Incendiati. Ma accetto lo stesso, incapace di  staccarti dalla pagina, catturato da una prosa possente ma quasi sussurrata.

Insomma, una chicca. Forse il testo migliore, fra quelli che ho letto quest’estate.

Ardengo Soffici: “Lemmonio Boreo ovvero l’allegro giustiziere”, 1912

Maggio 15, 2013 by

(La recensione che leggerete conclude la mia collaborazione regolare a questa come ad altre riviste, che ringrazio per avermi sempre ospitato. Ho compiuto a gennaio 71 anni e ho deciso di dedicare quest’ultimo tempo ad una specie di isolamento spirituale che mi aiuti a riflettere sulla vita e su ciò che mi circonda e mi ha circondato durante il corso di questi anni, così da poterli ancora di più amare ed apprezzare. Continuerò a curare, però, la rivista d’arte Parliamone, la mia creatura, finché ne avrò le energie necessarie. Ringrazio i lettori e i redattori della rivista. bdm)

Ardengo_SofficiAnimatore culturale, attento osservatore, forte polemista: la prima parte del Novecento, non solo italiano, ha in questo artista, pittore e scrittore, un autentico protagonista dei dibattiti intorno ai nuovi movimenti che si andavano affacciando in quegli anni. Clamorosa fu l’aggressione che subì a Firenze, alle “Giubbe rosse”, per aver scritto un articolo aspramente critico nei confronti dei Futuristi, da parte di Marinetti, Carrà e Boccioni.

Collaboratore delle riviste più importanti del tempo, tra cui “La voce” di Prezzolini, egli portò in Italia le novità e l’aria nuova che si andavano respirando a Parigi. Fu amico di Apollinaire, Max Jacob, Picasso, Braque e tanti altri. Quando il cubismo faceva le prime mosse, Soffici fu uno dei primi a prendere le difese di Picasso e Braque e ad esaltare il loro lavoro. Numerosi sono i suoi saggi su movimenti ed artisti del suo tempo.

Si avvicinò alla narrativa con opere quali: “Ignoto toscano”, Firenze 1909; “Lemmonio Boreo”, Libreria de “La Voce”, Firenze 1912; “Arlecchino”, Firenze 1914; “La giostra dei sensi”, Firenze 1918; “Taccuino di Arno Borghi”, Firenze 1933; “Autoritratto d’artista italiano nel quadro del suo tempo” (in quattro volumi usciti con i seguenti titoli: “L’uva e la croce”, Firenze 1951, “Passi tra le rovine”, Firenze 1952, “Il salto vitale”, Firenze 1954, “Fine di un mondo”, Firenze 1955); “D’ogni erba un fascio. Racconti e fantasie”, Firenze 1958; “Diari 1939-1945” (in collaborazione con G. Prezzoloni), Milano 1962.

Riguardo a “Lemmonio Boreo”, dopo avermene consigliato la lettura, Giorgio Bárberi Squarotti mi scrive, il 23 dicembre 2007: “Quanto al Lemmonio Boreo, per una vera interpretazione è necessario mettere a confronto l’edizione del 1912 con quella del 1923 (quasi uguale a quella del 1943)Leggi il seguito di questo post »

Stefano Terra: “Alessandra”, 1974

aprile 15, 2013 by

stefano_terraIl suo vero nome era Giulio Tavernari (Torino, 1917 – Roma, 1986). Fu scrittore e giornalista, vincitore del Premio Viareggio nel 1980 con “Le porte di ferro” (uscito nel 1979) e del Campiello nel 1974 con “Alessandra” (uscito nello stesso anno).

Altre sue opere furono: “Rancore“, 1946; “Sul ponte di Dragoti bandiera nera“, 1952; “La fortezza del Kalimegdan“, 1956; “Calda come la colomba“, 1971; “Il principe di Capodistria“, 1976; “Albergo Minerva“, 1982.
Si apprende dai cenni biografici stesi dallo stesso autore, che ebbe una vita politicamente molto impegnata, testimoniata da un’intensa attività di giornalista svolta soprattutto nei Balcani. La nota si conclude: “Vivo in una casa dell’Attica con eucalipti, vigna adagiata sull’argilla, gatta dalla testa piccola e le volpi all’imbrunire.” Scelte definitive di vita che richiamano alla mente quelle, ad esempio, di Eros Sequi e di Fausta Cialente.

Il romanzo narra la storia di un diplomatico che sceglie di lasciare l’Italia per un’isola (Rodi) nelle regioni dell’Attica, e del suo triste amore per la moglie Alessandra.
Il presente e il passato si alternano ed anche si mescolano dentro una scrittura malinconica e riflessiva.
La sensazione che si prova è di un disegno che vuole essere consapevolmente sfuggente, non mai compiutamente definito, consegnato al flusso del tempo e della memoria. Leggi il seguito di questo post »

Leonida Répaci: “I fratelli Rupe”, 1932

marzo 15, 2013 by

repaci_leonidaUscito nel 1932, (in calce Rèpaci ha segnato la data del “7 novembre 1931 in Viareggio”), è il primo dei volumi che costituiscono la “Storia dei fratelli Rupe”, conclusasi con “La terra può finire” del 1973. Prima del 1973 abbiamo, oltre al primo: “Potenza dei fratelli Rupe” (1934), “Passione dei fratelli Rupe” (1937), “Tra guerra e rivoluzione” (1969), “Sotto la dittatura” (1971). Vi si narra di una famiglia calabrese allo stesso modo che, nei medesimi anni, Giuseppe Dessì, che viene subito alla mente tra gli scrittori meridionali, racconta di una famiglia sarda, il cui capostipite è Angelo Uras. L’autore dichiarò di essersi ispirato alla storia della propria famiglia: “Questo romanzo è, nelle grandi linee, la storia di noi Répaci”.

Répaci fu un assiduo animatore della vita culturale del secolo scorso. La sua memoria, oltre che a questa “Storia”, è legata al Premio Viareggio, di cui fu il fondatore nel 1929 insieme con Carlo Salsa e Alberto Colantuoni. In Lucchesia, a Pietrasanta, morirà nel 1985. Prolifica fu la sua attività di giornalista, finché non l’abbandonò per dedicarsi alla stesura degli ultimi tre volumi della sua opera principale. Fu anche pittore.

La Morte, si potrebbe dire, appartiene al Sud, vi è di casa, come estrema falciatrice e come ispiratrice delle azioni degli uomini: “Quando il mondo è così lucente, sparire è così doloroso. Ciò dà rilievo, credito, potenza alla Morte.” Il romanzo si apre descrivendo la morte silenziosa di Antonio Rupe, che, come Angelo Uras nella saga di Giuseppe Dessì, è stato un uomo coraggioso e rispettato (era chiamato “Maestro”) nel suo paese, Sarmùra, in origine “un castello di pescatori, poi ingranditosi, che prese nome dall’acqua che bevve Oreste pellegrino ad una sorgente”. Ha lavorato una terra, Calimèra, arida, soda, infestata dalla malaria, e ne ha fatto un’azienda modello, finché la sventura (esito di cause in Tribunale) non si è accanita contro di lui, portando nella famiglia povertà e dolore. La sua morte peggiora le cose, ma, per fortuna, oltre alla vedova, ha lasciato dieci figli, tutti di forte carattere. Mariano il maggiore, davanti al morto, promette alla famiglia, e in particolare a Leto, il più piccolo, “il fanciullino” (del quale seguiremo tutti i sospiri e i passaggi della crescita) che penserà lui a procurare di che sfamarsi, con l’aiuto degli altri fratelli già grandi, Cino, Pietro e Tristano. C’è tutto il Sud in questo avvio. Ecco un brano dedicato alla descrizione di Sarmùra: “È un paese sempre pronto a mutar faccia, a sostituire i suoi blocchi di case strette aggrondate ferrigne con altre ancora più strette, più aggrondate, più ferrigne. Soprattutto più basse, ché il terremoto non ama la boria, perciò recide senza pietà le fioriture troppo ricche degli alberi di pietra, su cui gli uomini, questi uccelli dalle ali invisibili, fanno il nido.”

Répaci è un autore in cui si mescolano prodigiosamente asprezza e fantasia, solarità e incanto, in un’ambientazione di luoghi che hanno avuto altri celebri cantori vissuti tanti secoli prima, come Cassiodoro e Strabone, ai quali Répaci va collegandosi come un albero nuovo nella foresta antica. Leggi il seguito di questo post »